INTERVISTA A SANA BEN ACHOUR*, PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE TUNISINA DELLE DONNE DEMOCRATICHE: “PAROLA D’ORDINE: CONTINUARE UNITI”

Due mesi dopo la rivoluzione del gelsomino che ha dato il là al mondo arabo per una sollevazione di massa contro regimi autoritari, ingiustizie sociali ed un’economia fittizia per compiacere l’Occidente ‘che conta’: in Tunisia all’entusiasmo si unisce ora una certa confusione sul futuro immediato e l’apprensione per la crisi economica. Prossima tappa significativa della transizione auspicata verso la democrazie, le prime elezioni libere della Tunisia moderna, il 24 luglio prossimo, per l’indicazione dell’Assemblea Costituente, una scadenza decisamente ravvicinata perché la popolazione abbia il tempo di capire fino in fondo il nuovo panorama politico che cambia di giorno in giorno; mentre la crisi economica, che segue naturalmente ad ogni scombussolamento forte.

Ho avuto il privilegio di incontrare Sana Ben Achour, Presidente de l’Association Tunisienne des Femmes Démocrates et Professore all’Università di Tunisi di Diritto di Stato, una delle persone più rappresentative della società civile tunisina, con un’esperienza consolidata nella questione femminile e femminista. La stampa e l’opinione pubblica italiana ha bollato la rivoluzione tunisina, a dire il vero minimizzata al rango di rivolta, come una rivoluzione del pane ma la mia impressione è che la crisi economica sia stata solo un acceleratore e una causa prossima. Qual è la reale causa di questo sovvertimento? E’ chiaro: la rivoluzione del gelsomino è stata una sollevazione autenticamente popolare e della dignità, come dice la parola araba karaama. Tutti e non solo gli intellettuali sono usciti nelle strade e hanno occupato le piazze chiedendo lavoro, giuste condizioni di impiego, non il pane, almeno non in prima battuta. La richiesta è stata di diventare cittadini e non più sudditi. Certo la disoccupazione crescente – che ha colpito soprattutto i giovani anche con istruzione, spesso umiliandoli in uno stato di assistenzialismo che in Tunisia è molto diffuso, è stato un movente scatenante e un acceleratore. Ma anche la crisi economica, a ben vedere, è stata l’effetto di una crisi politica. Mi spiego: Ben Ali ha creato un sistema di menzogne, corruzione e di apparente benessere di facciata poggiato su un’economia vuota. Malgrado la voce di allarme che ho portato all’attenzione dell’Unione europea in più occasioni, tutto è caduto nel vuoto. L’Europa è restata sorda e ha preferito credere alla realtà del benessere a scopo turistico concentrato nel nord.

Non è un caso d’altronde che uno degli slogan dei manifestanti recitasse “Pane e acqua ma Ben Ali fuori”, come a dire mangeremo pane e acqua pur di avere libertà di espressione e dignità ed in effetti purtroppo la rivoluzione ha un prezzo. In effetti lo sviluppo del Paese si è concentrato, soprattutto negli ultimi anni, nei luoghi frequentati dagli investitori e dai turisti occidentali e, tanto per fare un esempio, in un paese per il quale il calcio è molto importante si sono strapagati i giocatori e costruiti stati con investimenti ingenti come a Tunisi ma si è abbandonata una città come Kairouan, capitale religiosa, lasciandola senza infrastrutture sportive, perché non serviva al megafono del consenso. Oggi il sistema vacilla anche perché la famiglia Trabelsi, quella della moglie dell’ex Presidente, controllava praticamente tutti i settori economici creando attualmente non poche difficoltà nelle esportazioni. A questo punto la sfida è gestire la transizione, come ed evitando quali rischi? Occorre fare attenzione a che la contestazione non prenda il sopravvento diventando essa stessa protagonista ma bloccando così il processo stesso e l’auspicio è che il cambiamento avvenga pacificamente come sembra adesso. In questo senso è fondamentale il lavoro delle associazioni, anche con una mobilitazione internazionale. Infatti la mia parola d’ordine anche nella recente Conferenza che si è tenuta qui a Tunisi e che ha visto riunite le associazioni civili è “Insieme nella rivoluzione, insieme dobbiamo continuare” perché so che è più facile essere uniti nella protesta che restarlo nella costruzione-ricostruzione di un paese. Ma è qui che si gioca il nostro ruolo.

Venendo all’aspetto sociale della transizione democratica certamente la difesa dei diritti senza discriminazioni all’interno della società, a cominciare dalla parità uomo-donna è una priorità. Domenica 12 Marzo, a Tunisi c’è stata un’ importante Conferenza (alla quale faceva cenno) dell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates che presiede, dell’Associazione delle Donne Tunisine per la ricerca e lo sviluppo, la Commissione Donne della Lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo e il Collettivo 95 Maghreb. Qual era l’obiettivo e quale risultato è stato raggiunto? L’argomento era la cittadinanza e l’uguaglianza e la parola d’ordine è stata ‘insieme nella rivoluzione, insieme continueremo’ e questa è una fase fondamentale per non disperdere il patrimonio raccolto durante i giorni della protesta cercando un’adesione più ampia possibile in tutti gli strati della popolazione e in tutte le regioni. Per il momento c’è un programma sul quale lavorare.

Sono state tolte le cosiddette riserve dopo la rivoluzione come annunciato? Non ancora: nei giorni della rivoluzione sono stati chiesti dei diritti, ora occorre trasformare le richieste in legge sia nel diritto di famiglia, sia in termini di vita pubblica. Al di là di quello che appare ai turisti e di alcune conquiste quali il divorzio – che in Tunisia esiste dal 1957 – è l’uomo che resta capo famiglia e fissa il domicilio coniugale rispetto al quale la scelta divergente di una donna può valere l’accusa pesante di ‘devianza’. Sui minori esiste l’obbligo di autorizzazione paterna per qualsiasi cosa, anche banale come partecipare ad una gita scolastica. Anche sull’eredità non c’è un obbligo di divisione in parti uguali e nessuna tutela è offerta alle madri nubili. Lo stesso vale per la richiesta della parità nella vita pubblica anche se non abbiamo chiesto ‘le quote rosa’ perché troppo lontane dalla nostra cultura. La richiesta è non solo un riconoscimento formale ma una costituzionalizzazione con l’inserimento nel preambolo della nuova costituzione della non discriminazione come valore ispirato alla Convenzione di Copenhagen contro le discriminazioni.

Dal punto di vista più politico la sua laicità in politica non lascia dubbi e anche raccogliendo le voci da Tunisi l’avversione ai partiti politici di ispirazione religiosa mi sembra evidente. Davvero bizzarra se si pensa al fatto che costantemente la stampa italiana ci bombarda con un’allerta ‘islamica’ come possibile deriva della rivoluzione. Perché quest’ossessione per la laicità anche da parte di chi si considera credente e praticante? La spiegazione è semplice anche se per un cristiano forse non così immediate. Il fatto è che il Corano è un testo di prescrizioni giuridiche prima che morali così dettagliato che se trasferito nella vita politica può diventare una morsa. Prendiamo il concetto di schiavitù – che è l’esempio che utilizzo anche all’università – che oggi è inaccettabile per qualsiasi sistema di governo eppure è presente nel diritto islamico perché proviene dalla tradizione. Il rischio di applicare la legge islamica alla vita pubblica rischierebbe tra l’altro di non rendere un buon servizio neppure alla nostra religione facendola apparire agli occhi del mondo come una religione inegualitaria. La sfida è di trovare quel fondo di umanità e di principi che possano essere comuni a qualsiasi stato moderno e che ci consenta di dialogare alla pari a livello internazionale.

Ascoltandola una domanda viene spontanea: pensa ad un impegno in prima linea in politica, ad una candidatura? Si, credo che sia l’unico modo per portare fino in fondo il mio impegno e rendermi utile anche se è prematuro, a cominciare dal fatto che ne devo ancora parlare con la mia famiglia. Comunque la risposta è affermativa.

Ilaria Guidantoni

 

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