ICONE ELETTRONICHE E GEROGLIFICI.

Il fattore paura in politica è tanto essenziale quanto devastante per un paese, per garantirsi un futuro duraturo. Quando il premier dichiara minaccioso: “non avrete nessuna alternativa all’infuori di me” cosa fa in effetti è istillare il fattore paura nella popolazione attraverso la macchina da guerra mediatica che domina da più di un decennio la politica italiana.
“Non avete nessuna alternativa” in effetti significa: “vi intimo perentoriamente di conservare questo regime di impossibilità ad un’alternativa credibile” – istillato fra l’altro da un capo del governo ed i suoi accoliti, che in quanto a credibilità lascia molto a desiderare – vuol dire appunto “conservare”; “rendere immobile”; “congelato nel tempo”.

L’immobilità è un altro fattore determinante per imporre un regime di terrore giocato sulle coscienze che vedono l’alternativa come un cambiamento dal quale non ci si può attendere nulla di buono; cambiare significa adottare punti di vista inesplorati, nuovi, visioni incognite, qualcosa da cui sottrarsi perché diverso. E fa paura.

Un retaggio culturale questo, pregno di irrazionale superstizione pre-cristiana, figlia di tradizioni secolari ben radicate nelle realtà contadine provinciali dello Stivale, di inamovibili eternità stagionali come il raccolto che si fa ogni anno, come la semina che feconda la terra, la madre terra che rivive ogni stagione regalando i propri frutti per la sopravvivenza della specie per garantire che tale lavoro si propaghi nell’eterno ciclo riproduttivo, dove il lavoro agricolo da parte di donne e uomini certifica tale perpetuità.

Una perpetuità che nemmeno la più moderna visione del futuro riesce a scalfire, data anche la storia della cultura italica, con un Nord principalmente radicato in culture industriali ed un Centro-sud in gran parte in culture agro-pastorali. Ma questo era il secolo scorso: anzi, l’inizio del secolo scorso, e il fenomeno dell’immigrazione di massa non era così diffuso come lo è adesso.
Le immagini di immigrati di colore che lavorano i campi del nostro Sud suscita effigi inconsce, sfruttate ad arte per infondere il sentimento del terrore di ciò che viene dall’esterno, moderni schiavi del XXI secolo, laddove il connubio terra-lavoro è parte di quella cultura contadina satura di “spiriti animali”, in quanto appunto tipico di chi si occupa di animali e tratta gli esseri umani come tali. Razzismo, xenofobia, isolamento culturale, diffidenza, violenza gratuita, ottusità sono parte di questo riflusso di “spiriti animali” diffusi da una cultura sempre più identificata con il nazionalismo caratteristico dell’attuale governo di centro-destra che soffia sul fuoco per agitare le menti eversive deliranti, gli esagitati, i fanatici, gli esaltati e psichicamente squilibrati.

Nel suo consueto editoriale sul Corriere della sera, Francesco Alberoni il 18 Ottobre scrive: “Quand’è che fioriscono i geni? Quando la società ha slancio, ottimismo, fame di futuro e quindi di persone competenti e geniali. Come in Italia nel dopoguerra, quando tutti volevano lasciarsi alle spalle la miseria e creare prosperità. Ed erano pronti a lavorare duramente, a prodigarsi. Gli operai lottavano per diventare piccoli imprenditori, gli studenti facevano a gara per sapere di più. I più bravi erano subito richiesti dalle imprese (…) Poi è venuta la globalizzazione e una crisi dei sentimenti morali collettivi. Abbiamo una popolazione invecchiata, una economia stagnante, una scuola scadente, una università satellite di quelle anglosassoni, con studenti che non hanno più la passione del sapere. Fra cui si è radicato il devastante convincimento che chi fa bene, chi si prodiga, chi lavora duramente, chi merita, non verrà ricompensato, non avrà successo. Mentre riuscirà chi è spregiudicato, chi appare in televisione, chi trova protezioni politiche. Si è diffusa l’idea che siamo in una «società liquida» in cui non conta ciò che hai fatto, non valgono la lealtà, la parola data. Cosa non vera perché se non resistessero questi valori la società smetterebbe di funzionare”.
Una parte fondamentale di tutto ciò è decisamente ascrivibile al modo in cui – a differenza del dopoguerra, senza email e internet -  si diffondeva il sapere e come questo costava una fatica enorme, e spesso era ricompensato con il successo che arrivava puntuale, frutto di molti sacrifici. Ma tutto aveva una sua intrinseca lentezza e ciclicità e la comunicazione era assai meno diretta; valeva molto la meditazione sui contenuti delle parole e come queste erano percepite.
Per rispondere dunque all’inevitabile cambiamento innovativo della globalizzazione veniva sacrificata quella necessaria lentezza che le parole scritte su pagine avevano – lo schermo ora domina incontrastato – ed un’accelerazione di assolutamente tutto, adesso è all’ordine del giorno e gli “spiriti animali” regnano indiscussi; non appena ci si è abituati ad un prodotto informatico, dopo pochissimi anni questo è già superato, da buttare, inutile, immolato sull’altare dell’aggiornamento costante. Come nel cinema del nuovo millennio.
Una necessaria digressione si impone a questo punto: nell’ultimo numero di Vivaverdi “giornale degli Autori e degli Editori” per gli abbonati Siae, l’articolo di Franco Montini a pagina 7 cita come: “in una società dove gli strumenti tecnologici destinati al consumo di immagini si stanno rapidamente moltiplicando non ha più senso distinguere fra cinema, televisione, video e quant’altro; è più corretto parlare semplicemente di audiovisivo e affidare la classificazione dei prodotti solo in base alla qualità”; tale coacervo di prodotti si sintetizza nella rapidissima evoluzione che il montaggio cinematografico ha avuto ultimamente, con un’operazione di aggregazione che potremmo definire meta-linguisticamente “dal generale al particolare”.
Il processo del montaggio cinema è ciò che segue dopo che un film viene girato sul set: la pellicola del girato viene lavorata nella sala di montaggio, e fino ad una quindicina di anni fa circa il montaggio “artigianale” prevaleva maggiormente per i film destinati al grande schermo; un film per la televisione subisce invece un processo di lavorazione totalmente differente – il montaggio elettronico appunto, cioè il montatore non tocca letteralmente la pellicola, non la ”sente” fisicamente, quest’ultimo un processo “artigianale” tipico del montaggio cinema; e nella sala di montaggio domina la moviola, molto sinteticamente una minuscola “sala di proiezione” del film girato sul set, dove poter intervenire continuamente su di esso con l’utilizzo di vari mezzi tecnici – la componentistica della sala di montaggio – per dare “forma” al prodotto finale ossia quello che il pubblico vede al cinema o in televisione.

L’”iconografia elettronica”, quella dei PC, ormai assolutamente dominante, pervasiva, onnipresente e onnicomprensiva racchiude in essa la “sintesi” del genio umano: cioè l’aver capito come poter ridurre alla portata di tutti operatività elettroniche – un tempo difficilissime e misteriose ed accessibili solo agli “addetti ai lavori” – ha di fatto reso possibile, facilitandone la conoscenza, quella manualità un tempo prerogativa solo per pochi eletti; manualità originariamente consacrate solo al lavoro della terra.

Se ora abbiamo le icone sulle quali clicchiamo per rendere funzionante il computer, lo dobbiamo anche in parte alla riscoperta di culture antichissime come quella dell’antico Egitto ed i suoi geroglifici: un esempio di come la sintesi nel simbolo dei caratteri della scrittura ideografica si manifesta come “significante”, come immagine idealizzata, simile agli ideogrammi Cinesi. Infatti nel montaggio cinema e televisivo - ormai totalmente computerizzati – le icone si sostituiscono alla componentistica dei mezzi tecnici complementari all’interno della sala di montaggio, clicchi su un’icona e magicamente essa si rende operativa con i suoi annessi e connessi. Che la cultura occidentale si stia inesorabilmente avviando verso un totale azzeramento della scrittura, fatta di segni (le parole) e i suoi significati intrinsechi? Tornare ai geroglifici con le implicite forme simboliche idealizzate per esprimere i significati iconografici sarebbe una forma barbarica per bypassare la scrittura e rendere il messaggio immediato, televisivo, “di pancia”: una pubblicità rapidissima e planetaria; immagine-significato e basta. Ognuno ci legge quello che vuole ma l’immagine è lì, fissata in un tempo infinito, buco nero culturale.
Un pò come il premier. Superato, inutile come un prodotto scaduto da tempo: un ectoplasma che ti minaccia dagli schermi televisivi con la sua «società liquida». E ti terrorizza.

Marco Rossi.

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